Marco Rubelli

Marco Rubelli

L'ascensore sociale

SPETTACOLO TEATRALE

Questa è stata la prima operetta che ho messo in scena.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. C'è stato un tempo in cui questo principio fondamentale, enorme, rivoluzionario, stava per realizzarsi: durante gli anni settanta e ottanta, poco oltre, per la prima volta nella storia dell'umanità, qualunque bambino si affacciasse al mondo, qui in Italia, aveva, almeno nelle intenzioni del legislatore, pari opportunità di affermarsi. 

Oggi non è più così. L'ascensore sociale si è bloccato; la mobilità è rimasta solo in senso orizzontale; la società sta tornando ad essere divisa per censo; la stessa scuola, il primo e più importante motore della promozione sociale ed economica, organizza ormai apertamente le proprie classi, i plessi, gli istituti, in funzione della provenienza e dell'estrazione socio-culturale. È in atto la tendenza alla segregazione in classi. Il ceto è di nuovo alla base del successo individuale nel consorzio dell'umana esistenza.

Trama

Pietro Curci è figlio di immigrati. Cresce negli anni settanta in un palazzo dell’alta borghesia, in una cittadina del nord, figlio del portinaio; suo padre fa il doppio lavoro, portiere e manutentore di caldaie, la sera torna a casa tardi; i fratelli sono più grandi di lui, presto lasceranno la stanzetta della portineria per guadagnarsi la vita; è bravo negli studi, meritevole, proseguirà, con inevitabili sacrifici, suoi e della famiglia, ma anche con il pieno sostegno della scuola e della società, fino alla laurea (in medicina) e alla specializzazione (in igiene e sanità pubblica), mosso da una idealità, anche politica, di servizio al bene comune. In tutti i lunghi anni della crescita e della formazione primaria, trascorsi in quel condominio abitato esclusivamente da professionisti, industriali, politici, e ogni sorta di rappresentanza della classe privilegiata, non si accorgerà mai della differenza tra lui e i suoi coetanei. Lo studio lo inorgoglirà, lo renderà consapevole, maturo, cosciente dei propri diritti. Anche quello di contestare.

Ma qualcosa non torna, nel quadretto edificante. Un individuo non è la società; Pietro dovrà fare i conti con il proprio sé, con la propria fragilità emotiva, con le proprie e altrui contraddizioni, con l’inadeguatezza della famiglia alla sfida epocale intrapresa; nel suo sforzo di elevazione è in fondo lasciato solo, abbandonato alle sue zone d’ombra. 

È appassionato di letteratura, filosofia, ma la famiglia, la società tutta, ha altre aspettative. E la passione in lui diventa velleità, alterigia. Per uno che viene dal basso, la conoscenza, la cultura alta, per quanto modesta in lui sia, nel momento in cui lo pone in contrasto con ciò che la società aveva previsto, diventa frutto peccaminoso (simboleggiato qui classicamente da un melo, ma in versione bonsaj, nella fioriera dell’atrio del condominio), lo rende un individuo asociale. È  una ricchezza di cui non sa saziarsi, di cui ne vorrebbe sempre di più, una ricchezza umanistica che gli rende insopportabile la propria condizione di tecnico, per altro oggettivamente frustrante e poco conforme alla sua natura; una voluttà che comporta inevitabilmente l’instaurarsi di un aspro conflitto di coscienza, spinto al punto da provocare un vero e proprio crollo psichico (e proprio quando era a un passo dalla tanto sudata posizione di alto rilievo sociale, dalla quale avrebbe potuto finalmente restituire, alla collettività e alla sua gente, l’investimento in lui collocato). Si riprenderà, ma al prezzo del taglio definitivo con i sogni, del cestinamento della laurea, per ripartire con una piccola attività commerciale, sicuramente non appagante, probabilmente molto usurante, ma che gli darà ancora l’illusione di essersi posizionato, nello status socio-economico, più in alto rispetto a suo padre. Suo padre di cui echeggerà nell’aria, più volte, una frase sibillina: “E a Pietro, quanto manca?”. Quanto manca a suo figlio per tornare, come lui, giù giù nel sottosuolo? Per Pietro è arrivato il momento di scoprirlo. 

Tutto questo viene rievocato una sera rincasando dall’appartamento dei genitori, ormai molto anziani, salendo al proprio appartamento, posto nello stesso stabile, quello di sempre, due piani sopra; una sera come un’altra, ma in cui suo padre lo aveva congedato con quella domanda per lui incomprensibile, rivolta alla madre: “E a Pietro, quanto manca?”. Ma quanto manca per che? Non sa darsi risposta. Prende l’ascensore, stanchissimo; la salita è bloccata in corsa: guasto meccanico! A conti fatti è chiaro che dovrà stare lì dentro tutta la notte. 

Ne uscirà solo dopo un lungo e viscerale percorso nella memoria e nella propria storia, allegro all’inizio, poi rabbioso, quindi superbo, infine doloroso e autodistruttivo. Qualcuno si è accorto del guasto, i tecnici lo riportano giù: ma non al pianterreno, da dove veniva, bensì in cantina! Dove c’è il locale caldaia, quella manutenuta da suo padre, allegoria della sua condizione passata e futura. Lì, inaspettatamente, spaventosamente, troverà segregata una società indistinta, fatta soprattutto di giovani, una folla inerte, muta, impossibilitata, non si capisce da che, a prendere l’ascensore e salire. Quella piccola società, messa di fronte al guasto dell’ascensore, è il pubblico stesso.

Informazione tecniche

  • Durata: 70 minuti
  • Necessità tecniche: nessuna
  • Autore e interprete: Marco Rubelli

L'ascensore sociale

SPETTACOLO TEATRALE

Questa è stata la prima operetta che ho messo in scena.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. C'è stato un tempo in cui questo principio fondamentale, enorme, rivoluzionario, stava per realizzarsi: durante gli anni settanta e ottanta, poco oltre, per la prima volta nella storia dell'umanità, qualunque bambino si affacciasse al mondo, qui in Italia, aveva, almeno nelle intenzioni del legislatore, pari opportunità di affermarsi. 

Oggi non è più così. L'ascensore sociale si è bloccato; la mobilità è rimasta solo in senso orizzontale; la società sta tornando ad essere divisa per censo; la stessa scuola, il primo e più importante motore della promozione sociale ed economica, organizza ormai apertamente le proprie classi, i plessi, gli istituti, in funzione della provenienza e dell'estrazione socio-culturale. È in atto la tendenza alla segregazione in classi. Il ceto è di nuovo alla base del successo individuale nel consorzio dell'umana esistenza.

Trama

Pietro Curci è figlio di immigrati. Cresce negli anni settanta in un palazzo dell’alta borghesia, in una cittadina del nord, figlio del portinaio; suo padre fa il doppio lavoro, portiere e manutentore di caldaie, la sera torna a casa tardi; i fratelli sono più grandi di lui, presto lasceranno la stanzetta della portineria per guadagnarsi la vita; è bravo negli studi, meritevole, proseguirà, con inevitabili sacrifici, suoi e della famiglia, ma anche con il pieno sostegno della scuola e della società, fino alla laurea (in medicina) e alla specializzazione (in igiene e sanità pubblica), mosso da una idealità, anche politica, di servizio al bene comune. In tutti i lunghi anni della crescita e della formazione primaria, trascorsi in quel condominio abitato esclusivamente da professionisti, industriali, politici, e ogni sorta di rappresentanza della classe privilegiata, non si accorgerà mai della differenza tra lui e i suoi coetanei. Lo studio lo inorgoglirà, lo renderà consapevole, maturo, cosciente dei propri diritti. Anche quello di contestare.

Ma qualcosa non torna, nel quadretto edificante. Un individuo non è la società; Pietro dovrà fare i conti con il proprio sé, con la propria fragilità emotiva, con le proprie e altrui contraddizioni, con l’inadeguatezza della famiglia alla sfida epocale intrapresa; nel suo sforzo di elevazione è in fondo lasciato solo, abbandonato alle sue zone d’ombra. 

È appassionato di letteratura, filosofia, ma la famiglia, la società tutta, ha altre aspettative. E la passione in lui diventa velleità, alterigia. Per uno che viene dal basso, la conoscenza, la cultura alta, per quanto modesta in lui sia, nel momento in cui lo pone in contrasto con ciò che la società aveva previsto, diventa frutto peccaminoso (simboleggiato qui classicamente da un melo, ma in versione bonsaj, nella fioriera dell’atrio del condominio), lo rende un individuo asociale. È  una ricchezza di cui non sa saziarsi, di cui ne vorrebbe sempre di più, una ricchezza umanistica che gli rende insopportabile la propria condizione di tecnico, per altro oggettivamente frustrante e poco conforme alla sua natura; una voluttà che comporta inevitabilmente l’instaurarsi di un aspro conflitto di coscienza, spinto al punto da provocare un vero e proprio crollo psichico (e proprio quando era a un passo dalla tanto sudata posizione di alto rilievo sociale, dalla quale avrebbe potuto finalmente restituire, alla collettività e alla sua gente, l’investimento in lui collocato). Si riprenderà, ma al prezzo del taglio definitivo con i sogni, del cestinamento della laurea, per ripartire con una piccola attività commerciale, sicuramente non appagante, probabilmente molto usurante, ma che gli darà ancora l’illusione di essersi posizionato, nello status socio-economico, più in alto rispetto a suo padre. Suo padre di cui echeggerà nell’aria, più volte, una frase sibillina: “E a Pietro, quanto manca?”. Quanto manca a suo figlio per tornare, come lui, giù giù nel sottosuolo? Per Pietro è arrivato il momento di scoprirlo. 

Tutto questo viene rievocato una sera rincasando dall’appartamento dei genitori, ormai molto anziani, salendo al proprio appartamento, posto nello stesso stabile, quello di sempre, due piani sopra; una sera come un’altra, ma in cui suo padre lo aveva congedato con quella domanda per lui incomprensibile, rivolta alla madre: “E a Pietro, quanto manca?”. Ma quanto manca per che? Non sa darsi risposta. Prende l’ascensore, stanchissimo; la salita è bloccata in corsa: guasto meccanico! A conti fatti è chiaro che dovrà stare lì dentro tutta la notte. 

Ne uscirà solo dopo un lungo e viscerale percorso nella memoria e nella propria storia, allegro all’inizio, poi rabbioso, quindi superbo, infine doloroso e autodistruttivo. Qualcuno si è accorto del guasto, i tecnici lo riportano giù: ma non al pianterreno, da dove veniva, bensì in cantina! Dove c’è il locale caldaia, quella manutenuta da suo padre, allegoria della sua condizione passata e futura. Lì, inaspettatamente, spaventosamente, troverà segregata una società indistinta, fatta soprattutto di giovani, una folla inerte, muta, impossibilitata, non si capisce da che, a prendere l’ascensore e salire. Quella piccola società, messa di fronte al guasto dell’ascensore, è il pubblico stesso.

Informazione tecniche

  • Durata: 70 minuti
  • Necessità tecniche: nessuna
  • Autore e interprete: Marco Rubelli